1931 - Morte e resurrezione di Posidonia

10 Maggio 1931 - Morte e resurrezione di Posidonia

                                   Napoli, maggio.

   Si è molto parlato, negli ultimi tempi, delle rovine di Pesto e dei nuovi scavi iniziati dal Sovrintendente Vittorio Spinazzola e continuati alacremente dal suo successore comm. Amedeo Maiuri. Pochi sanno che la città di Pesto presenta, oltre l'immenso interesse archeologico del suoi templi paragonabili solo al Theseion di Atene e al tempio della Concordia agrigentino, lo strano mistero della sua totale rovina. Non bene gli archeologi e i geologi sono riusciti a mettersi d'accordo sulle ragioni d'ordine politico o naturale che del luogo ove sorgeva una potentissima e floridissima città hanno fatto un pauroso deserto. Ora, lo estendersi e l'approfondirsi delle nuove ricerche hanno ridestato non solo lo studio degli archeologi, ma quello più raccolto dei geologi.

Paesaggi

   Passati i campi ove scorazzano le mandre di bulali, i tristi e monotoni Pianori di qua e di là del Sele che fanno ripagare al viaggiatore la gioia della Campania felice, non si sorpasseranno più i vecchi segni della malaria e delle antiche scorrerie saracene, solo per interrogare il mistero del Poseidonion e della Basilica, del Tempio di Cerere e del Tempio della Pace. Si cercano nel deserto circostante i famosi, gl'immortali roseti. Si traversa la landa sterile, arsa, incenerita dalla morte che imperversò per secoli e secoli; si fende la boscaglia, in cui si annidavano i briganti della Calabria, per cercare questo gioiello di cui si sono avute notizie attraverso gli esametri dei poeti e la prosa encomiastica degli storici romani. Una ciltà perduta nella selva, su di un lido ove non approda più legno, simile alle immense città di pietra ciclopica, ricche di fortilizi e di necropoli, di templi e di palagi che il pioniere scopre nelle giungle inestricabili della Birmania o nelle selve del Yucatan: segno della civiltà degli Indù o dei Maya. Questo senso di religioso mistero prendeva nella contemplazione dei quattro meravigliosi templi dalle grandi colonne scanalate, dalle severe metopi. Cinque torri e il tracciato pentagonale delle mura dava un segno tangibile dell'antica potenza.
Ora, il cauto piccone dell'archeologo ha messo in luce quasi tutta la cinta muraria; le torri note sono ben venti; la Porta Marina, dove termina il Decumanus major, iniziato a Porta della Sirena, è ormai tutta scoperta, fino al piano lastricato della via. La città è letteralmente sepolta sotto parecchi metri di terriccio, ed è legittimo credere che, se non sarà ripetuto il miracolo di Pompei, gli edifici principali del decumano maggiore e di quello trasversale che divide la città da Porta Aurea a Porta della Giustizia, devono essere in uno stato di rovina meno totale del consueto.

Glorie di Posidonia

   Pesto fu tra le città più illustri della Magna Grecia; una, anzi, delle principali protagoniste del fosco dramma che si svolse tra Sibari e Cotrone per l'egemonia sulle colonie della penisola. Tra il sesto e il settimo secolo prima di Cristo le numerose e ricche colonie elleniche del golfo di Taranto e delle rive del Jonio. Sibari, Cotrone, Metaponto, Siri, Locri Epizefirei, erano giunte a un tal grado di potenza e di prosperità da esser costrette a cercare un'espansione in altre regioni. Traversato l'Appennino calabrese, le loro carovane trovarono una costiera felice e amena quanto, se non forse più di quella del Jonio. I Trezeni di Sibari scelsero il luogo più bello per fondare una città che votarono al Dio del mare e chiamarono Posidonia: la costruirono sfoggiando tutta la loro raffinatezza, segnando il grado del loro sviluppo spirituale non solo nella linea maestosa dei templi, che dovrà attendere diciotto secoli e lo slancio mistico della linea gotica per essere equiparato, ma soprattutto nell'amore pei fiori e nella bellezza dei loro stateri d'argento su cui era battuta l'immagine di Posidon.
Posidonia, dunque, fu la naturale alleata, di Sibari; ma intanto la saturazione di forza e di ricchezza doveva infondere nelle città del Jonio quella sete smodata di egemonia che reca gli Stati a sicura rovina. S'accese, crudelissima, la guerra. La prima ad essere schiacciata fu Siri, che aveva tentato di ostacolare le relazioni di Sibari col Tirreno. Indi la coalizione di Sibari, Cotrone e Metaponto si scisse. In principio, Cotrone fu battuta dai Locresi; dovette poi subire un rivolgimento interno che condusse al potere il partito aristocratico dei pitagorici. A Sibari avveniva, invece, l'inverso col trionfo dei democratici. Quando, alfine, s'accese la guerra tra queste due maggiori città, la prima era in manifeste condizioni d'inferiorità in confronto della seconda, esuberante e munitissima. Tuttavia sulle sponde del Traente, nel 510, le sorti di Sibari furono decise: i cotroniati spietatamente rasero al suolo l'opulenta rivale.
   Cosi Posidonia, giovane di circa un secolo, dovette cercare negli Etruschi della Campania l'appoggio che la madre patria non poteva più darle. Non doveva essere di buon augurio l'alleanza della città di Nettuno e delle rose! Nel 474 gli Etruschi furono disfatti e Posidonia orientò nuovamente le sue simpatie verso il Jonio, donde nel 400 la distolse definitivamente la grave disfatta con la quale, insieme a Lao e Pixunte, cadde in potere del selvatici Lucani. In questo tempo cessa la monetazione argentea degli stateri e s'inizia quella bronzea nella quale i conquistatori storpiano il nome ellenico in Paistum. Nel 332 i Lucani furono disfatti da Alessandro Re d'Epiro che liberò la città; nel 326 vinsero a loro volta e trucidarono Alessandro a Pandosia, impadronendosi nuovamente di Pesto. Solo nel 273, alfine, i Romani la ridussero in soggezione, vi stabilirono una colonia che divenne subito floridissima, e la chiamarono Paestum.
   La fedeltà della città sibarita fu proverbiale: durante la seconda guerra punica offrì all'erario delle patere d'oro che il Senato rifiutò cortesemente; soccorse Taranto assediata da Annibale; fornì a Roma soccorsi d'uomini e di danaro. Ebbe dei martiri sotto Diocleziano; vescovi fin dal V secolo; oltraggi e ruberie da ogni sorta di barbari. Nell'alto medioevo, quando i saraceni avevano preso stanza ad Acropolli ai piedi del Cilento, cadde in loro potere e fu distrutta. Compirono l'opera Ruggero i1 Normanno e Roberto Guiscardo che marmi, mosaici, sculture rapirono ai deserti templi per adornare il Duomo di Salerno.
   I miasmi delle acque impaludate avevano respinto gli abitanti verso l'interno; i fuggiaschi, che avevano abbandonato Pesto, si erano radunati in quei centri abitati che oggi si chiamano Altavilla, Albanella, Capaccio, Roccadaspide. Un misterioso moto del suolo interrò le case e i monumenti; i sovrastanti templi furono circondati da una foltissima boscaglia. Così di Pesto si perse memoria. Solo nel secolo decimottavo, quando i primi sentori del Romanticismo si manifestavano nella nuova passione dei viaggi che aveva preso i dotti, e specialmente dei viaggi in Italia, se ne riprese a parlare. Ma bisognava giungere ai tempi nostri perchè il piccone dell'archeologo, dopo i lavori dei bonificatori, frugasse sotto la coltre di terriccio. Pochi anni dopo il 1800, il Cilento e la regione intorno a Pesto erano ancora infestati dalle bande dei briganti Giardullo, Gerino e Manzo, briganti che facevano gli interessi della loro borsa e anche, si diceva, quelli di Lasagnone, ovvero Francesco II esule a Roma. Queste masnade talvolta s'impadronirono persino di turisti inglesi, procacciando impacci diplomatici al nuovo regime.

Cause geologiche

   Ora gli uomini di scienza non ritengono possibile che le maestose rovine di Pesto siano rimaste nascoste all'occhio dei naviganti e dei viaggiatori durame i civilissimi secoli decimoquarto e decimoquinto sol perchè le fasciava la fitta boscaglia. Nè ritengono che lo spopolamento totale di si cospicua città sia dovuto solo alle incursioni dei saraceni. L'illustre direttore dell'Istituto napoletano di Geologia, senatore Giuseppe De Lorenzo, ha recentemente comunicato all'Accademia dei Lincei una interessante ipotesi "Sulla causa geologica della scomparsa dell'antica città di Paestum". L'illustre scienziato mette in rilievo che nè le incursioni barbariche, nè la malaria delle circostanti campagne erano sufficienti a spopolare del tutto la ellenica Posidonia, la lucana Paistum e la romana Paestum senza una causa strettamente geologica che ne avesse sommerso i monumenti, per restituirli alla luce solo da un paio di secoli. II senatore De Lorenzo ha potuto constatare che i ruderi venuti recentemente alla luce, e specialmente le torri di guardia alla Porta Marina, erano seppellite sotto tre o quattro metri di un terriccio e di tufo calcareo di origine fluviale e palustre. Ora, come mai si è potuto formare un cosi alto strato di interrimento sulle abitazioni posidoniate, strato che è 11 vero responsabile della distruzione e della scomparsa dell'antica città?
Attualmente la piattaforma di travertino, sulla quale sono fondate le costruzioni di Pesto, è a un diciotto metri sul livello del mare; ma il De Lorenzo calcola che, nel sesto secolo avanti Cristo, essa doveva essere a ben venticinque metri sul livello del mare. Tuttavia i fiumi che sboccano in quella regione non avrebbero ancora fornato il grande sedimento di dune sabbiose che ora separa la Porta Marina dal mare, di circa mille metri; questo è dimostrato dalla rapida pendenza del decumano maggiore che sbocca a Porta Marina, pendenza che, similmente a Pompei e ad Ercolano, denota la vicinanza della riva.
   Quasi contemporaneamente alla fondazione della città cominciava un moto di subsidenza, e cioè di elevazione del livello marino, che ai tempi di Augusto e poi di Strabone aveva già reso malsana la contrada. Nel medioevo il moto dLsubsidenza giunse al suo massimo, conducendo il livello del mare poco al di sotto della piattaforma di travertino. Intanto i corsi di acqua scendenti dall'Appennino, il Sele, il Capodifiume, il Solofrone, la acque freatiche del sottosuolo, privi della necessaria pendenza invasero la campagna circostante invadendola di acque stagnanti e di sedimenti. Così, trascorrendo i secoli, Pesto fu lentamente ricoperta di un alto strato di depositi acquitrinosi e malarici, crebbe una folta e intricata vegetazione che coperse e celò del tutto la colonia dei Sibariti, tanto che nel Cinquecento se ne era persa memoria. Ma nel secolo decimosesto il movimento di subsidenza della terra si inverti in quello di elevazione in modo che il livello del mare cominciò a discendere, tanto che ora è solo tre metri superiore a quello del tempio di Augusto. In conseguenza le acque stagnanti si cercarono, attraverso le dune sabbiose, nuovi alvei e nuovi sbocchi; la campagna si prosciugò e si rifece adatta al pascolo e al soggiorno dell'agricoltore che, diradata la boscaglia, nel secolo decimottavo ha rimesso in luca il composto ordine dorico dei monumenti posidoniati.
Il senatore De Lorenzo conclude la sua comunicazione segnalando che il moto di elevazione è terminato: tutto il litorale tirreno ha ripreso il moto di subsidenza. Quanto durerà, fin dove saliranno le acque? <<Breve è il respiro dell'uomo e lungo è il palpito della terra>>, conclude l'illustre geologo.

ALBERTO CONSIGLIO.

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Fonte:

LA STAMPA Archivio Storico dal 1867 - Giornale LA STAMPA, 10 Maggio 1931

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