1866 - Piaggine: soppressa Chiesa dei Cappuccini
[..] LE CHIESE DEI MONASTERI SOPPRESSE NEL 1866 1866.
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Con la legge soppressiva del 1866 (vedi nota 1), [...] Nel salernitano, furono chiuse più di sessantasette case religiose; ma non altrettante furono le chiese monastiche escluse dal culto. Nel circondario di Salerno, su 27 di esse, nove soltanto ebbero a soffrire per le restrizioni governative; sette invece per il Circondario di Sala Consilina; tredici per quello di Campagna (che risultò in sostanza il più duramente colpito dalla riforma, a nessuna chiesa essendo stato dato di potervisi sottrarre); e dodici per quello di Vallo della Lucania. [...]
CIRCONDARIO DI VALLO DELLA LUCANIA
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Piaggine Soprano
(4) Chiesa dei Cappuccini.
Contrastate furono le operazioni di chiusura della Chiesa annessa al soppresso monastero dei cappuccini. In quella chiesa esisteva la cappella sotto il titolo di Maria Santissima del Carmine, di patronato del Comune. In virtù di tale diritto il Sindaco Vairo, nella controversia sorta con la Ricevitoria del Demanio, sostenne di poter rivendicare al Comune l’inalienabile possesso di tutti gli oggetti preziosi conservati nella Cappella; ed in senso più lato ritenne di potersi fondatamente opporre alla chiusura della chiesa.
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Nota 1: Nell'Italia meridionale la soppressione di molti ordini religiosi e la confisca delle terre della Chiesa, ebbe conseguenze negative. Un obiettivo delle leggi di liquidazione era quello di attuare una generale privatizzazione, ma il modo in cui fu attuata la vendita delle terre della Chiesa non poteva raggiungere l'obiettivo di risollevare le classi più povere, che, anzi, ne furono escluse poiché era previsto che "i beni nazionali" andavano venduti "esclusivamente» ai creditori dello Stato" (in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico).
Si ottenne l'effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: gli appartenenti alla borghesia degli affari, alti funzionari dello Stato ed in parte alla nobiltà già possidente. In particolare, nelle zone rurali, il processo di liquidazione della feudalità stava lentamente sostituendo al vecchio feudatario il proprietario unico. Pochi privilegiati riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine (costituenti il 90% della popolazione meridionale) che videro recintate le nuove proprietà e soppressi gli usi civici, vale a dire tutti i diritti d'uso civico, quali far pascolare le pecore, il raccogliere legna o erba, etc.
Erano le premesse per la formazione di una grande e nuova manomorta: il neonato Regno d'Italia si era subito preoccupato della liquidazione delle terre espropriate alla Chiesa, ma non riuscì a redistribuire ai contadini meridionali una qualche proprietà fondiaria, che al contrario continuò ad accumularsi nelle mani della solita borghesia agraria (la quale, assunto così il completo controllo delle amministrazioni locali, provvide ad accaparrarsi anche ciò che restava del demanio e delle terre comunali).
La feudalità era stata soppressa, ma solo sulla carta: la struttura sociale era ancora largamente e profondamente feudale e persisteva sotto forma di latifondo ("manomorta"). Questo nuovo assetto sociale creò una situazione difficile, che impose ben presto un deciso potenziamento del controllo poliziesco nei confronti della massa di ex contadini che si aggirava per le campagne che alimentò anche il brigantaggio postunitario italiano.
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Fonte:
RASSEGNA STORICA SALERNITANA - Anno XXIII - N. 1-4 - Gennaio-Dicembre 1961 (A cura della società salernitana di storia patria)